“La festa dell’insignificanza” di Milan Kundera. Una riflessione di Ottavio Mirra

“La festa dell’insignificanza” di Milan Kundera. Una riflessione di Ottavio Mirra

Milan Kundera è, a mio avviso, uno dei pochi geni viventi della letteratura mondiale.

 

Il romanzo che lo ha reso celebre in Italia è senza dubbio “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, considerato un capolavoro della letteratura mondiale contemporanea.

 

Ha scritto romanzi, poesie, opere teatrali, utilizzando indifferentemente due diverse lingue: il ceco e il francese. Nasce a Brno, allora Cecoslovacchia. Nel 1975 si trasferisce in Francia e nel 1979, a seguito della pubblicazione de “Il Libro del riso e dell’oblio”, gli viene tolta la cittadinanza cecoslovacca. Da allora tutte le pubblicazioni successive le scriverà in francese.  Nel leggere i suoi romanzi ci si interroga se siano narrativa o saggi. Il fatto è che per Kundera non c‘è differenza, e nei suoi romanzi si alternano, con un linguaggio scorrevole, direi naturale e fresco, elementi narrativi con altri tipicamente saggistici, in un amalgama perfetto.

 

Il romanzo, “La festa dell’insignificanza”, pubblicato nel 2013 da Adelphi, rappresenta la summa dello stile romanzo-saggio di Kundera, composto da capitoletti apologhi solo in apparenza scollegati dal resto. Come in un cerchio, il romanzo comincia e finisce con la stessa considerazione apparentemente futile. Nel mezzo, l’evoluzione e l’arricchimento del tema che, riproposto nel finale, si ritrova robusto e pregno di contenuto. Alain, uno dei protagonisti, è affascinato e turbato da certe ragazze che, come impone la moda, indossano magliette corte che lasciano scoperto l’ombelico. Arzigogolando fatuamente sulla forza erotica che sprigiona l’ombelico (che si impone come quarto “luogo d’oro” delle donne), “il buchetto tondo situato al centro del corpo” diventa il pretesto per parlare d’altro, del cordone ombelicale, della madre che non voleva che nascesse, che l’ha abbandonato piccolissimo e con la quale lui dialoga attraverso un ritratto incorniciato. Della madre che, nel suo immaginario, è stata una donna terribile. Ha cercato, quando lo portava nel grembo, di suicidarsi lasciandosi affogare nel fiume ma uccidendo di fatto una ragazzo che, tuffatosi, aveva cercato di salvarla. Ostinata nel rifiuto a ricevere un aiuto, lo farà annegare mentre lei, al contrario, si salverà. Cosicché Alain sa di essere nato per sbaglio, di vivere al posto di un altro. La consapevolezza di stare al mondo come un intruso, spiega la sua mediocrità nelle faccende della vita, il suo carattere remissivo. Sono un “chiedoscusa” dice di sé, dopo essere stato inavvertitamente urtato da una ragazza che, nonostante le scuse non dovute che egli ha profuso, lo ha malamente apostrofato. Amareggiato per questo piccolo incidente, in una telefonata con il suo amico Charles, giunge alla conclusione che il mondo è suddiviso nelle due categorie degli accusati e degli accusatori, laddove i primi, pur senza colpa, saranno sempre soccombenti.

 

Kundera descrive questo stato d’animo con una leggerezza che il dramma, se di dramma si tratta, ci fa sorridere. Come dice Alessandro Piperno nella sua recensione sul “Corriere della Sera”, Kundera è rimasto Kundera: lo stile sobriamente paratattico, il tono dimesso, l’andamento svagato e rapsodico.  E’ un romanzo che, oltre ad Alain, vede protagonisti amici o conoscenti di Alain, come Charles, Ramon, Dardelo e Caliban, tutti con destini trascurabili, nessuno proiettato verso vette di successi, tutti avvolti da una mediocrità che attenua pure i drammi. “Strano romanzo – scrive Antonio Gnoli su Repubblica- tocca tutte le corde di una civiltà al tramonto senza prenderle mai troppo sul serio. Crisi, angoscia, disorientamento lasciano il passo a un buonumore che si fa strada tra le rovine della storia. “ Solo dall’alto dell’infinito buonumore – scrive Kundera citando Hegel – puoi osservare sotto di te l’eterna stupidità degli uomini e riderne” Così ognuno dei protagonisti mette in campo una propria personale vacuità, come D’Ardelo che si finge malato di cancro per ottenere l’ammirazione degli altri sul modo leggero con cui affronta la malattia, o Charles che vuole metter su un teatro di marionette ispirato da una barzelletta su Stalin e il Politburò. Kundera getta una luce su problemi seri, ma non pronuncia neppure una frase seria. Subisce il fascino del mondo contemporaneo e al tempo stesso evita ogni realismo.

 

E’ un romanzo breve, di sole 128 pagine che sollecitano costantemente la riflessione, ma il lettore si troverà spesso a sorridere, a volte a ridere apertamente. E’ un romanzo che, come detto, comincia con una riflessione sull’ombelico e con quella finisce, a dimostrazione che l’insignificanza è l’essenza stessa della vita. Nel “Sipario” Kundera aveva scritto: “solo il romanzo ha saputo scoprire l’immenso e misterioso potere della futilità”. E la futilità, citando nuovamente Gnoli, con i suoi toni sventati e ilari, fa venir meno l’ingrediente principale di ogni tragedia: la serietà.

 

 

 

 

 

 

 

Ottavio Mirra
Ottavio Mirra vive a Capua, in provincia di Caserta. E’ padre di due figli, velista e avvocato, il tutto rigorosamente in quest’ordine. Ama leggere. Nel 2016 ha vinto i premi letterari Racconti nella Rete e Terre di Lavoro – Racconti dal presente. Nel 2018 invece è stato selezionato tra i primi venticinque nell’ambito del premio letterario Zeno e tra i primi cinque per il premio Nautilus. Suoi racconti sono stati pubblicati in diverse antologie. Dal porticato (2019, Il seme bianco) è la sua raccolta d’esordio