Intervista a Paolo Giulierini direttore del MANN

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Intervista a Paolo Giulierini direttore del MANN

Dall’avamposto di “Capua il Luogo della Lingua live streaming “, la diretta facebook del festival che dal 2005 celebra i linguaggi nella città del Placito Capuano, il viaggio nei luoghi della bellezza targata cultura non poteva mancare all’appuntamento con il MANN, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli tra i più prestigiosi e ricchi al mondo, chiuso dall’emergenza Covid che oltre un anno sottrae l’incanto dei musei al godimento del pubblico.

 

 

Un incontro simbolo di quanto, nonostante tutto intorno appaia in stallo, la bellezza non si fermi, piuttosto si prepara ad accoglierci al meglio quando tutto tornerà ad essere possibile.

 

 

Una bellezza fatta di storie, di persone, e di un direttore, Paolo Giulierini, dal 2015 alla guida del MANN, che ha meritato consensi di pubblico e critica, e il riconoscimento quale “Miglior direttore di museo” nel 2018 da “Artribune”, la stessa rivista dedicata all’arte e alla cultura che nel 2017 elesse il MANN “Miglior museo italiano”.

 

Tante le cose da raccontare, a partire dal suo libro “Stupor Mundi” appena pubblicato dalla Rizzoli, una mostra dedicata ai Gladiatori presentata online  lo scorso 31 marzo e visitabile fino al 6 gennaio 2022, e l’ultimo racconto fotografico di Luigi Spina “Sing Sing” dedicato ai tesori nascosti nei depositi del MANN.

 

 

Ma partiamo dal libro, “Stupor Mundi. Storia del Mediterraneo in trenta oggetti”, che lei ha dedicato a suo figlio Davide e a sua nipote Maria. Perchè?

“Perchè quando si parla di viaggi, nello spazio e nel tempo, la mia idea è quella di affidare ai giovani le nostre fatiche, le nostre speranze, e anche la nostra eredità culturale. La speranza è che prendano il testimone e continuino a portarlo avanti meglio di noi”.

 

Stupor Mundi era il nome con il quale veniva definito Federico II di Svevia, che riuscì a creare “una magnifica corte a Palermo” dove era naturale l’incontro tra intellettuali di ogni religione e cultura, in perfetta armonia.  Ma in realtà lo stupor mondi che racconta nel suo libro è il Mediterraneo, attraverso 30 oggetti tra i tanti presenti al MANN. A partire da un frammento di affresco proveniente da Ercolano che racconta della seta, quasi come se da questo filo invisibile, prezioso, e delicato, si dipanasse il racconto di secoli, culture e stratificazioni da lì in avanti

“Sì infatti.  Parto dall’incontro che c’è stato con questo tessuto meraviglioso parlando della via della seta che è molto attuale. I romani apprezzavano tantissimo le trasparenze di questo tessuto come si vede anche da questo affresco di Pompei, e spendevano tantissimi denari per la seta della quale non si conosceva neanche l’origine e la maniera di produzione che i cinesi tenevano nascosta. Conobbero la seta per la prima volta nel 53 a.C. con la battaglia di Carre, in un momento drammatico ossia quando le armate di Crasso furono sconfitte per la prima volta dai Parti.  Fu allora che i romani videro per la prima volta stendardi realizzati con questo tessuto morbido e raffinato, la seta. Poi però il prodotto rallegrò le corti dell’imperatore e alla fine si stabilì una sorta di arteria commerciale che collegò per sempre, e fino ai giorni nostri, il Mediterraneo con la Cina. E per quella via non transitò soltanto la seta ma anche tanti altri oggetti come la porcellana o la polvere da sparo. Insomma attraverso la via della seta il Mediterraneo non fu più isolato ma comunicante con un’altra grande cultura che aveva rappresentato il contraltare di Roma”.

 

Lei propone oggetti che, al di là del valore insito, hanno un significato in virtù dei passaggi di mano e delle interpretazioni che hanno avuto nella storia fino ad arrivare a noi. Come la Tazza Farnese.

“Sì infatti: la tazza Farnese è un oggetto emblematico innanzitutto per quello che significa come oggetto straordinario, la più grande gemma del mondo antico intagliata in agata sardonica probabilmente tra il II e il I sec. a.C. ad Alessandria d’Egitto. Rappresenta un’allegoria del regno dei Tolomei e dell’Egitto stesso. Ma la cosa più interessante è che è uno dei pochi oggetti che non è mai stato sepolto, quindi non è stato scavato e rinvenuto in seguito ad indagini archeologiche ma è passato di mano in mano dal II secolo a.C. fino a noi. Ed è passata dai Tolomei al tesoro di Augusto e successivamente a Costantinopoli e poi ancora ce la danno a Samarcanda. Ritorna a Costantinopoli e poi a Firenze, nelle mani di Lorenzo de’ Medici, e infine ai Farnese, e quindi ad Elisabetta madre di Carlo III di Spagna,  per giungere a Napoli e al MANN.

Insomma tante persone che l’hanno avuta tra le mani, tante dinastia, che hanno reso la tazza una sorta di l’oggetto che lega tutti i centri di potere del Mediterraneo, occidentali e orientali, e che proprio in virtù dei segni del potere che esprime, tutti gli uomini si riconoscono a prescindere dalla loro religione”.

 

In questo libro Lei presta molta attenzione al femminile e definisce il Mediterraneo, come Napoli, “femmina”, accogliente, severa, generosa

“Sì, è un racconto molto spostato al femminile. Il Mediterraneo è un luogo che è disponibile ad accogliere ed è la patria iniziale di popolazioni sedentarie dedite all’agricoltura. Ma i recenti studi hanno dimostrato come, a partire dalla preistoria, il ruolo della donna nel rapporto con l’agricoltura e con la terra sia stato fondamentale. Sono le donne che seminano, sono le donne che raccolgono i frutti, sono le donne che hanno questo arcano e intimo rapporto con una terra che genera frutti come loro generano i figli e nuove generazioni. Evidentemente noi dobbiamo riscoprire i valori dei personaggi femminili che hanno fatto la storia, in tutti i tempi del Mediterraneo, e che solo a volte vengono rappresentate degnamente. Spesso eroine sfortunate, altre volte come poetesse o matematiche, in qualche modo travolte dalla loro volontà di emergere nonostante fosse  un normale e sacrosanto desiderio. Io credo che il tributo storico del Mediterraneo sia passato soprattutto sulle spalle delle donne. Sarà forse perché ho una mamma maestra, che mi ha instradato su questi temi, il motivo per il quale presto sempre una particolare attenzione e delicatezza a questo essere superiore che incarna in sé la madre, la moglie, la donna e tantissime altre qualità che l’uomo non ha”.

 

 

Il suo libro affronta molti temi che partono da molto lontano fino ad arrivare giorni nostri. Per esempio nel capitolo dal titolo “Attacchi di panico” lei parte dal mito di Pan per spiegare il fenomeno identificato come attacco di panico, fino ad arrivare a Jim Morrison.

“Sì perché Pan è una delle più antiche divinità del Pantheon greco e nasce insieme a Zeus. Questo uomo-capra vive in una delle regioni più antiche della Grecia, l’Arcadia, e ama suonare il flauto a sette canne. Ama i giovinetti, come ricorda il gruppo marmoreo conservato al MANN conosciuto con il nome di “Pan e Dafni” dove Pan aiuta il giovinetto ad imparare la musica. E soprattutto Pan appare all’improvviso, spesso ai pastori che portano le greggi, creando una paura irrazionale. In effetti Pan è da una parte il simbolo di queste inconsce paure che esplodono all’improvviso e che non siamo in grado di controllare; dall’altra la sua musica non è amata dagli dei che, come Apollo, amano la musica della cetra che è ordine, razionalità, espressione di quel mondo pitagorico legato al movimento delle sfere celesti e all’ordine cittadino. Quindi Pan ha da una parte questo istinto ancestrale che non si domina, “l’attacco di panico” da cui deriva il nome; dall’altra la condanna di essere portatore di una musica delle selve e dei boschi che non è musica di ordine ma di contestazione. Evidentemente i due legami sono immediati con la società odierna dove spesso ci imbattiamo in questa patologia degli attacchi di panico, perché non dominiamo più e non ascoltiamo più il nostro subconscio; e dall’altro il richiamo alla musica maledetta fatta di personaggi come Jim Morrison  e Jimi Hendrix che con il loro genio negli anni ’60 avviarono una contestazione forte alla musica tradizionale. E ci fu un amico di Pan, Marsia, che cercò addirittura di sfidare Apollo suonando l’aulòs, strumento a fiato a doppia canna  molto simile al flauto di Pan. Apollo naturalmente truccò il concorso e la giuria lo decretò vincitore. Per punizione Marsia fu scorticato vivo, a testimonianza del fatto che non si può sfidare la musica e la voce degli dei”.

 

Anche nel capitolo “Eroe… ma non troppo” lei inizia il racconto dall’affresco pompeiano “Achille a Sciro” che raffigura  l’eroe travestito da donna con il nome di Pirra la Rossa,  per affrontare un tema molto attuale, quello del travestimento ancora ritenuto una mera buffonata.

“Si in effetti il Mediterraneo ci aiuta a comprendere anche questo, ossia come già nel mondo antico si fosse riflettuto e addirittura ci fosse stata molta più apertura verso certe scelte ed orientamenti che spesso non erano neanche tali. Infatti noi sappiamo come, per esempio, nel mondo greco ci fosse soprattutto una fase come quella dell’adolescenza dove era previsto, canonizzato, il rapporto con un adulto, inteso sia nel senso educativo sia, a volte, in senso sessuale. L’episodio di Achille a Sciro era abbastanza emblematico perché egli si nasconde lì grazie alla madre Teti perché sa che se va a Troia ci rimetterà la vita. E si traveste da fanciulla. Parte così una sorta di task force per andare a riprenderlo, ovviamente su ordine di Agamennone, e si sceglie Ulisse, il più astuto degli achei, per scovarlo. Ulisse porta in dono alle fanciulle, tra le quali si nascondeva Achille, gioielli ed armi. Naturalmente l’unica fanciulla che va verso le armi è Pirra la Rossa che cade nella trappola di Ulisse. Il travestimento di Achille è emblematico perché l’eroe non solo si traveste, e quindi si avvicina al mondo femminile, ma ricorda anche il legame profondo che sappiamo avesse con Patroclo. Nonostante disponesse di schiave bellissime, il suo cuore batteva per un guerriero, così come il cuore di Alessandro Magno batteva per Efestione. Il tema dei grandi eroi, l’espressione massima della mascolinità che pure avevano tali inclinazioni naturali, evidentemente ci invita a guardare con molta più serietà, per esempio, ai “femminili” di Napoli, legati alla tradizione napoletana, a culti probabilmente di sapore pagano che però a Napoli sono perfettamente integrati in quanto città greca, città ospitale, città di mare abituata al confronto, alle diversità. Ecco il Mediterraneo ci aiuta a non temere tabù nati con la religione cristiana e che prima, nel mondo pagano, non erano contemplati”.

 

E veniamo al capitolo “Dai pittogrammi all’emoticon” un viaggio che parte dalle prime forme di scrittura, quelle dei disegni sui ciottoli ideati dai Sumeri, fino a quelli delle emoticon che usiamo tutti nei messaggini o sui social. Un capitolo che contiene anche un progetto, ce lo spiega?

“Si parte dalla costatazione di recenti studi secondo i quali i giovani d’oggi conoscono non più di 300/400 parole in media. Questo è molto preoccupante sia dal punto di vista semantico, della conoscenza dei significati delle parole, perché sappiamo che meno parole si conoscono e più i  pensieri sono semplici; sia perché ciò implica la perdita progressiva della capacità di scrittura. Sappiamo tutti, infatti, come i telefonini o i tablet abbiano portato sempre di più alla perdita della scrittura corsiva a mano, e quindi all’utilizzo della scrittura digitale. Ma c’è di più: l’incrocio di questi due elementi ha portato prima a semplificare i messaggi, poi a far saltare le H sostituendole con il K, e poi naturalmente a semplificare ulteriormente i concetti sostituendo la parola o espressione verbale con gli emoticon, faccine o disegnini che semplificano uno stato d’animo attraverso simboli. Problema, quello che si sta verificando oggi nel 2021,  che era già avvenuto 5000 anni fa quando, nella genesi della scritture a partire dai Sumeri ai geroglifici, avveniva questa semplificazione. Quindi che cosa è avvenuto sostanzialmente? E’ avvenuto che si è chiuso il cerchio: siamo partiti da un punto e poi, dopo una grandissima evoluzione che ha visto la letteratura, i grandi classici, stiamo tornando pericolosamente al punto di partenza. Questo non lo possiamo permettere. Ciò non significa demonizzare l’utilizzo della tecnologia a condizione che questa non faccia perdere la capacità di scrittura e la conoscenza dei significati delle parole. Per questo il Museo si sta impegnando nella interazione con i giovani, avendo una grande sezione dedicata alle scritture e alle epigrafi latine e greche. Attraverso una App sarà possibile udire i suoni delle parole antiche, divertirsi a scrivere questi segni affinché non si perda memoria dell’enorme progresso che l’uomo ha fatto con la scrittura e si ritorni a conquistare il significato, l’etimologia delle parole. In caso contrario useremo suoni di cui non conosciamo neanche il senso. Oggi i musei, insieme alla scuola, devono difendere questo aspetto”.

 

Presenterà questo suo progetto a Capua, il Luogo della Lingua per il Placito Capuano, primo documento scritto in volgare nel 960 d.C,  promuovendo anche la conoscenza della lingua napoletana, custode di stratificazioni linguistiche e culturali antichissime e infinite?

Certo, perché sono fortemente convinto della necessità di far conoscere la lingua napoletana. Io stesso ogni giorno mi alleno a memorizzare almeno una parola, un verbo della lingua napoletana,  e mi diverto a vedere se la radice è greca, oppure deriva dallo spagnolo, dal francese. E’ un mondo incredibile all’interno del quale si ritrovano significati e suoni che provengono da tutto il Mediterraneo. E proprio per incentivare la conoscenza di questa lingua, che è stata anche lingua di corte a San Pietroburgo ai tempi di Caterina, che tra le 10 lingue in cui è stato tradotto il nostro videogame “Father&Son”, scaricato da oltre 5 milioni di utenti nel mondo,  c’è appunto il napoletano.  E credo che dobbiamo essere fieri di questa lingua che ha rappresentato e rappresenta stratificazioni di civiltà che si sono succedute. E, tornando a Capua, pochi anni fa abbiamo organizzato la mostra sui Longobardi per dire quanto è ricca di storia, di civiltà, la nostra lingua e le nostre terre. Quindi è fondamentale partire dalla lingua, dei significati delle parole, dalla scrittura per far comprendere, ripeto, che se non si conoscono le parole il rischio è che fra cinquant’anni comunicheremo solo attraverso simboli e segni, e sarebbe una vera debacle”.

 

E c’è un altro progetto che lei sta mettendo in essere ed è quello di accendere i riflettori sui tesori nascosti nei depositi del Mann, un mare infinito di bellezze non esposte al pubblico che accomuna tanti altri musei italiani. E il Mann lo ha fatto con una pubblicazione, firmata dal fotografo casertano Luigi Spina, dal titolo “Sing Sing. Il Corpo di Pompei”. Che ne pensa del fatto che tanto dei nostri tesori italiani non sono visibili al pubblico e molti ancora non sono neanche in Italia?

“Io credo che lei abbia toccato un nodo nevralgico della valorizzazione dei Beni Culturali in Italia. Per dare delle cifre che possono aiutare i nostri ascoltatori, il museo di Napoli espone circa il 10% di quello che ha nei depositi, e chiamiamo “Sing Sing” perché assomigliano molto al carcere di New York. Luigi Spina è riuscito a fotografare facendo diventare arte anche un oggetto in deposito. Si pensi che con questi oggetti il Museo di Napoli nutre oltre 30 esposizione all’anno in tutto il mondo, ricevendone anche discreti introiti. Ritengo che il tema dell’Italia è anche, e soprattutto, valorizzare i propri depositi, organizzare mostre. A volte alcuni proclami di restituzione di oggetti all’Italia sono giusti dal punto di vista legale, perché naturalmente sono stati portati via in maniera fuorilegge. Ma non sono la panacea o la soluzione dei nostri problemi: non è che il ritorno di un oggetto fa sì che un museo torni a nuova vita. Il museo deve avere una propria strategia, un proprio quadriennio di obiettivi. E allora, non è il singolo pezzo che cambia la storia. Quasi tutti i musei italiani hanno questi sterminati depositi, che potrebbero essere valorizzati anche con il digitale. Perché oggi possiamo costruire “open data” affinché tali oggetti si vedano e si studino in tutto il mondo, siano fonte di connessioni, di nuove idee. Lavoriamo veramente su quello che abbiamo in casa. Eppure alle volte, è più comodo lanciare strali per confondere le acque e far sì che il problema si sposti e non si assurga finalmente all’impegno che dovrebbe essere costante e continuo, ossia quello di valorizzare quello che già abbiamo. È molto importante ricordare questo, che dietro gli oggetti antichi, o gli oggetti d’arte in generale, c’è un’umanità che li ha prodotti, che li ha visti passare di mano, suscitando le emozioni di coloro che li hanno posseduti e di chi li rivede dopo un restauro, magari a distanza di migliaia di anni. Insomma fil rouge non è l’oggetto in sé ma l’uomo che, dal mondo antico ad oggi, è unito da quel filo di seta con il quale apro il mio libro. Se riusciamo a trasmettere questa idea di “empatia” tra le passate generazioni, che hanno amato odiato come noi, e le nuove generazioni, allora creeremo veramente una sorta di portale temporale dove i musei parlano agli uomini. Diversamente ci troveremo semplicemente in un luogo che seleziona, in maniera asettica, alcuni oggetti che possono più o meno piacere ma che non parlano a nessuno. Gli oggetti raccontano storie di uomini e le storie degli uomini sono quelle che ci arricchiscono e che appagano l’anima”.

 

E a proposito di uomini, la mostra “Gladiatori”, inaugurata online lo scorso 31 marzo e visitabile fino al 6 gennaio 2022, racconta degli uomini sotto la corazza. Presentata dallo spot del regista Lucio Fiorentino, le musiche originali di Antonio Fresa, e la voce narrante di Luca Word, il doppiatore che ha dato la voce italiana a Russel Crowe ne “Il Gladiatore” di Ridley Scott nel 2000, il video che si conclude con la frase “Solo uniti vinceremo”. Un messaggio che dal passato parla al presente?

“Infatti: questa mostra, così come il libro “Stupor Mundi”, sono stati la risposta a questo periodo devastante che ha ferito tutti, portatore di lutti e separazioni. La cultura, invece, deve generare coesione e questa mostra straordinaria, che spero potrà essere visita da tutti tra pochi mesi, è una mano tesa verso un ritorno alla normalità. Ed è dedicata a tutti i gladiatori di oggi, medici e paramedici che si sono fatti in quattro, spesso rimettendoci la vita, per consentire a tutti noi di sopravvivere. La mostra è un inno alla libertà e un omaggio a chi ha combattuto in questi mesi nell’arena, ai tanti  lavoratori, imprenditori, che stringono i denti in questa terribile pandemia economia che non si sa fino a quando durerà al di là dell’emergenza sanitaria”.

 

 

 

Un allestimento “diffuso”, che personalizza gli spazi del Museo Archeologico Nazionale di Napoli  “a misura di Gladiatori” per raccontare non solo il mito, ma anche la dimensione umana del gladiatore: non ne nasconde gli elementi più duri, ma li inserisce in una cornice più ampia, rivelando gli uomini sotto gli elmi e il contesto storico in cui vivevano.

 

 

La “persona sotto l’elmo”, insomma, partendo da alcuni e specifici aspetti della dimensione più “lontana dall’arena”: l’alimentazione; la medicina e la chirurgia; l’individuo e la morte.

 

 

Interessate dalla mostra non soltanto le aree espositive tout court (Atrio, Salone della Meridiana e Braccio Nuovo), ma tutti gli ambienti dell’edificio, inclusa la facciata esterna, invitano ad esplorare la grande mostra del MANN.

 

 

Sono, naturalmente, il Salone della Meridiana ed il Braccio Nuovo i “passaggi obbligatori” per entrare nel mondo dei Gladiatori, tra archeologia e modernità: nel Gran Salone, infatti, è possibile scoprire i centosessanta reperti dell’allestimento, esplorando le sei sezioni che raccontano un’arte antica secondo diversi nuclei di ricerca; nel Braccio Nuovo, invece, spazio alle nuove tecnologie, con il percorso off dedicato alle narrazioni multimediali ed alla fortuna, creativa ed artistica, di una figura storica dal successo planetario.

 

 

Parte integrante dell’itinerario è la “settima sezione” tecnologica che, intitolata significativamente “Gladiatorimania” e concentrata nel Braccio Nuovo del Museo, costituisce un vero e proprio strumento didattico e divulgativo per rendere accessibili a tutti, adulti e ragazzi, i diversi temi della mostra.

 

 

Questa sezione costituisce la parte ludica della mostra: in sala, sono allestite sagome di gladiatori autoportanti, ritratti nei disegni della Scuola Italiana di Comix: è possibile, così, scattare una foto accanto all’immagine del combattente; ancora, una lavagna con grandi fogli dà l’opportunità di disegnare, facendo liberare la fantasia di grandi e piccoli. Infine, una novità: “Gli scacchi archeologici del MANN”.  I pezzi del gioco sono costituiti da immagini dei reperti esposti al Museo. Anche in questo caso è presentato un prototipo tattile con didascalie in braille a cura dei Servizi Educativi del MANN su una proposta progettuale di Ludovico Solima dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”.

 

 

Tra le chicche della mostra, anche l’esposizione del Mosaico di Augusta Raurica dopo la campagna di restauro e mai presentato prima in alcun allestimento in Italia.

 

 

E prima di salutare il pubblico del “Capua il Luogo della Lingua live streaming, Paolo Giulierini promette: “Ritornerò presto a Capua perché è alta la nostra attenzione anche al Tardo Antico. In questa logica, dopo i Longobardi, parleremo anche dei Bizantini con una mostra in calendario per il 2022. E da qui riprenderemo in mano le connessioni che avevamo già iniziato qualche tempo fa con i Longobardi”.