‘O Nfierno di Marilena Lucente e dei suoi allievi a Un borgo di Libri

‘O Nfierno di Marilena Lucente e dei suoi allievi a Un borgo di Libri

“(…) chiamiamo con gli attributi di illustre, cardinale, aulico e curiale
questo volgare che abbiamo trovato (…)”
(De vulgari eloquentia, I, XVII)

 

È il sogno che Dante ha su di sé, ce lo ha ricordato Marilena Lucente che ieri sera, domenica 5 settembre, ha presentato a Casertavecchia sul palcoscenico della rassegna letteraria “Un Borgo di Libri”, diretta da Luigi Ferraiuolo, il suo ‘O Nfierno, Dante e Virgilio mmiezo ê malamente. La Divina Commedia letta e tradotta in classe (Giazira, 2020). Durante la serata Ilaria Delli Paoli ha introdotto i canti I, V e XXVI, letti da Roberto Solofria, entrambi regalandoci una magnifica interpretazione.

 

marilena lucente    

 

Il libro prende origine da un esperimento fatto in classe dall’autrice stessa con i suoi allievi di scuola superiore.

 

Tutto parte da una riflessione di Marilena Lucente che si sofferma sull’idea stessa della lingua immaginata da Dante. E il pensiero della docente di italiano va subito a quel concetto di lingua esposto nel De vulgari eloquentia: la lingua che occorre al sommo poeta per comporre il suo poema deve essere illustre, limpida, pura, intelligibile; cardinale, ché intorno ad essa possano tutte le altre lingue (i volgari delle infinite varianti) girare; infine, aulica e curiale, Dante immagina una lingua nobile che possa aver dignità tale da esser parlata anche in una corte o in un tribunale. Una lingua unica, dunque, che abbia la «dolcezza dell’idromele e la bontà del pane orzato». La scrittrice pugliese coglie queste due metafore e le ritrova anche in un’altra lingua, quella parlata dai suoi allievi, e subito comprende che è lì che tutto si gioca, su quella musica che la parola inseguita da Dante può restituire.

 

Marilena Lucente ci ricorda che ad oggi si contano sessanta traduzioni in lingue nazionali, trenta in diversi dialetti e una in latino. In ogni cattedra universitaria di Lingua italiana nel mondo si studia la Divina Commedia, e a nessuna opera è mai stato concesso di essere sempre e ovunque declamata. Tutto ciò per il miracolo di una lingua ibrida, «scandalosamente espressiva», dice Lucente, citando Vittorio Sermonti. Per un idioma così vocale e sperimentale non poteva mancare l’incontro con il napoletano.
Nel 1867 Iaccarino prova la prima traduzione della Divina Commedia in dialetto, grazie alla quale ottiene l’autorizzazione dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione, Michele Coppino, per la Scuola popolare dantesca in napoletano. «Quanto Dante c’è a Napoli», considera Lucente, nel «paradiso abitato da diavoli di Croce».

 

È naturale dunque concepire una traduzione dell’Inferno, opera dei suoi giovani allievi. Ma «la confidenza è la madre della mala creanza», cita il detto, e Marilena Lucente conosce i rischi di una tale impresa. Qual è il napoletano a cui ricorrere per questa traduzione? La risposta le viene suggerita dallo statuto di opera corale del progetto stesso. Il napoletano cui fanno ricorso questi studenti, quello su cui possono fare affidamento, è quello che parlano ogni giorno, discendente sì delle canzoni del primo Novecento, ma intriso del lessico di Gomorra. La docente lascia che questi ragazzi possano trovare una matrice condivisa nella loro realtà. I suoi alunni, come la maggior parte nel territorio, sono ragazzi che spesso non hanno una lingua comune su cui fare affidamento: alcuni abitano a Caserta, altri nei piccoli centri della provincia, molti sono stranieri; tutti, attraverso il dialetto napoletano riescono ad integrarsi, più e meglio di quanto possano fare ricorrendo all’italiano.

 

Da insegnante straordinariamente illuminata e sensibile, Marilena Lucente, raffinatissima scrittrice, intuisce che da questa traduzione possa scaturire un percorso non solo didattico, ma una meravigliosa esperienza formativa. Perché la lingua, al pari del mare che attraversa Ulisse, «affratella».

 

E si scopre così nella lingua scelta dai ragazzi per tradurre l’Inferno lo stesso ibridismo della lingua di Dante. Infine, tutto assume un senso e del ‘O Nfierno di Lucente e dei suoi allievi, il sommo poeta gioirebbe nel percepire la musica di una traduzione fresca, ingenua, che conosce lo scandalo espressivo invocato da Sermonti a proposito della lingua di Dante.

 

 

“Lo sfizio è il desiderio. Non c’è, per Ulisse, avventura più grande dell’animo umano che quella di riconoscersi esseri desideranti, andare, mossi da quella spinta invisibile che dà forza e determinazione. Superiamo i confini, che in realtà vuol dire soprattutto superiamo noi stessi. È gente di mare, è fatta per spostare gli orizzonti sempre in avanti. Certo ci sono molte incognite legate a quel viaggio, ma il pericolo, il rischio che si corre è solo la misura di quello a cui teniamo e non vogliamo perdere. E poi quel viaggio è destino.

Considerate la vostra semenza, “Pensate ca vuje site uommene:/ nun site fatt pe ccampà comme e bestie,/ ma pe sseguì ‘a virtù e ‘a cunuscenza”.

Fateci caso, siate attenti a ciò che siete, alla vostra identità: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.

Marilena Lucente  – ‘O Nfierno, Dante e Virgilio mmiezo ê malamente. La Divina Commedia letta e tradotta in classe (Giazira, 2020)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

nicoletta alaia

Nicoletta Alaia, dopo la Laurea in Farmacia, si laurea in Lingue e letterature moderne europee e americane presso l’Università degli studi di Cassino. Attualmente si occupa di critica letteraria ed è in fase di conclusione di un corso di dottorato in Letteratura inglese presso la stessa università.