La Cappella della Morte e il Sacco di Capua del 1501

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La Cappella della Morte e il Sacco di Capua del 1501

Qualsiasi comunità cittadina, comprese quelle situate negli angoli più remoti dell’universo conosciuto, ha ragione di esistere e di poter affermare il proprio senso civico solo attraverso la conservazione della “memoria collettiva”.

 

Tale prerogativa può comprendere il ricordo o l’insieme dei ricordi, più o meno consci, di un’esperienza vissuta o mitizzata da una popolazione vivente, la cui identità di appartenenza deriva anche dal sentimento provato per i fatti accaduti nel passato.

 

Le reminiscenze delle genti di una specifica cittadina possono riguardare sia episodi dai risvolti positivi sia manifestazioni di ogni sorta che hanno poi avuto esiti negativi. Indipendentemente, quindi, dalla riuscita di un qualsiasi accaduto, felice o funesto che sia stato, ciò che ha spinto a rendere coesa ogni società comunale è stata la portata dell’avvenimento stesso, il cui racconto successivo ha assunto, nel tempo, i connotati di una narrazione mitica, caratterizzata, ogni volta, dall’introduzione di elementi esplicativi volti alla rievocazione di gesta eroiche, condotte da uno o più individui, o alla commemorazione religiosa di un sentimento di pietà provato, ad esempio, di fronte ad un eccidio di massa.

 

Quest’ultimo aspetto è ben presente nella memoria storica di Capua e riguarda il Sacco del 24 luglio del 1501, perpetrato dal duca Cesare Borgia, che comportò la morte di migliaia di persone. Tale episodio è argomento di discussione storiografica sin dai primordi dell’età moderna. La ricostruzione filologica dei fatti è stata, difatti, trattata, nell’arco di svariati decenni, sia da studiosi di chiara fama nazionale ed internazionale sia da emeriti eruditi locali, ma il riferimento più prossimo, utile alla conoscenza dei particolari inerenti lo sterminio del Valentino, resta ancora il preziosissimo testo di Agostino Pascale, edito, nel 1682, a Napoli.

 

Dalle notizie riportate in questo volume, confermate ed integrate in anni successivi da altri studiosi, si evince che entro la prima decade di luglio del 1501, le truppe del Borgia insieme alle milizie francesi di Luigi XII, comandate dal maresciallo Robert Stewart d’Aubigny, e alle soldatesche del conte caiatino Francesco Sanseverino, si erano già stanziate al di sotto delle mura di Capua, nelle vicinanze dell’antica Porta Sant’Angelo. Di questo insediamento ne fornisce una descrizione postuma anche Francesco Granata,  il quale riferì che:

“[…] i francesi a’ 12 Luglio del 1501 si accamparono presso Capua, e propriamente a Ponticello, e a Casa Cerere, detta oggi Casa Cellora, luoghi lontani dalla città circa un miglio, e mezzo; e tenevano le tende ben coverte, acciochè la quantità e moltitudine de’ loro soldati non fosse conosciuta. Erano nell’esercito uomini di diverse nazioni, e di costume diverso, de’ quali erano seimila con balestre armati, duemila sagittari, tremila con ronche a penna, quattromila con picche, cinquemila archibugieri, e duemila quattrocento soldati veterani, e quattromila cavalli: tutti questi erano con Obegnì, e col Conte di Cajazzo. Dodicimila altri soldati condusse il Duca Borgia, uomo di pessimi costumi, facendo insieme il numero di ben 34 mila, e 800 soldati”.

 

Proprio in questa zona, a ricordo del tragico massacro, i membri della Compagnia della Morte, meglio conosciuta come Confraternita della Santella, decisero di far erigere, intorno agli anni Venti del XVI secolo, una Cappella intitolata alla Morte, attribuendo, così, al luogo stesso una precipua connotazione di stato perpetuo di supplizio, generato da persone violente nonché seminatrici di odio e di distruzione.

 

Nella stessa località, a distanza di più di tre secoli e mezzo, si verificò un altro fatto di guerra: lo scontro fra l’esercito borbonico e quello garibaldino nel corso della cosiddetta Battaglia del Volturno, svoltasi agli inizi di ottobre del 1860. Questo conflitto, fra le varie cose, comportò la distruzione della Cappella stessa, poi ricostruita verso la fine del XIX secolo.

 

Nel 1988, con decreto della Curia capuana, approvato successivamente dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, l’edificio di culto venne affidato alla parrocchia di San Roberto Bellarmino, che ne detiene ancora l’amministrazione, nonché la cura materiale e spirituale.

 

La struttura di questa Cappella è di forme semplici. É completamente assente in essa qualsiasi tipo di ornamento sia pittorico che scultoreo. La sua pianta è rettangolare. L’esterno è caratterizzato da quattro pareti grezze intonacate di bianco, mentre la parte superiore è percorsa da una spessa cornice aggettante. La facciata principale presenta una sola porta d’accesso, in ferro dipinto di nero con feritoia dotata di croce decorativa e le tre lettere A.M.G., che stanno per Ave Maria Grazia. Quest’accesso è inserito in un telaio rettangolare in pietra, tinto in rosa, su cui si sovrappongono due piccoli archi a tutto sesto con all’interno due differenti grate semicircolari in ferro, verniciate sempre con colore scuro. Al di sopra di questi due ultimi elementi vi è una lampada in ferro battuto e vetro.

Affianco all’uscio c’è la lapide fatta collocare, nel 1910, dai confratelli della Compagnia della Morte. Su di essa è riportata la seguente iscrizione:

QUI / IL 13 LUGLIO 1501 / ALLA TESTA DI 20.000 SOLDATI COLETTIZII PONEVA LE NEMICHE TENDE / BERNARDO D’AUBIGNY / E DI QUI DOPO 11 GIORNI DI ASSEDIO / MOSSERO LE MASNADE / ALLA STRAGE DI CAPUA / DONDE IL NOME A QUESTO TEMPIETTO / DI CAPPELLA DELLA MORTE / LE BELLICOSE GIORNATE DI SETTEMBRE ED OTTOBRE 1860 / ROVINARONO QUESTO SACELLO / LA PIETA’ DI UN DEVOTO LA RIFACEVA / RESTITUENDO A MARIA / IL CULTO DIMENTICATO / LA CONFRATERNITA DELLA MORTE / VULGO SANTELLA / QUESTA LAPIDE POSE / I OTTOBRE 1910.

 

L’interno della Cappella è a navata unica. La pavimentazione è composta da maioliche di color rosso scuro, mentre le mura sono completamente bianche. L’intero ambiente è coperto da una volta a botte ed è illuminato da luci artificiali provenienti da due piccole e sobrie lampade laterali e da un lampadario centrale. Sullo sfondo c’è un gradone leggermente rialzato su cui poggia l’essenziale altare in pietra completamente intonacato di bianco. Dietro di esso si sviluppa un muretto che ha la funzione di mensola continua. Superiormente ad esso è l’affresco della Madonna del Latte, localmente nota come Madonna delle Grazie, già datato intorno al X secolo, inserito in una cornice in stucco caratterizzata da motivi vegetali. Sia la cappella sia il dipinto sono stati restaurati, fra il 1990 ed il 1991, per volere dell’attuale parroco della Chiesa di San Roberto Bellarmino.

 

Nel 1994, invece, venne realizzato il piazzale laterale con la mensa in pietra; venne incassata la fognatura e venne condotta l’energia elettrica.

 

Rispetto ai secoli passati, l’architettura dell’edificio non è molto cambiata; confrontando l’attuale struttura con quella riportata in un’immagine xilografica del 1894 si evince che gli unici elementi ad esser stati eliminati, in periodo ignoto, sono i gradini che si trovavano davanti al suo ingresso.

 

 

 

Il presenta articolo è estratto dal libro “Terza pagina” di Daniela De Rosa, raccolta di articoli pubblicati sul mensile Block Notes diretto da Franco Fierro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

daniela de rosa
Daniela De Rosa è insegnante di materie letterarie, giornalista pubblicista, autrice di numerosi saggi storici. Per diversi anni ha collaborato con la società Opere Mu.se.a alla Reggia di Caserta, occupandosi di didattica museale.