Edith Wharton – “Sulle rive dell’Hudson” una riflessione di Maria De Sipio

Edith Wharton – “Sulle rive dell’Hudson” una riflessione di Maria De Sipio

Edith Wharton – “Sulle rive dell’Hudson”, (Elliot 2024)

 

“[…] Stando così le cose – espressioni come “superato”, “obsoleto”, “fuori dai giochi” non erano mai stati pronunciati in presenza di Vance se non in tono di riprovazione –, Vance si domandava come mai le moltitudini illuminate, per le quali era un segno di dinamismo e di benessere cambiare quasi tutti gli anni l’abitazione, l’attività, l’automobile, la moglie o il marito, potessero accontentarsi di seguire anno dopo anno la stessa religione, o piuttosto le stesse, dato che praticamente tutti quelli che conosceva ne avevano una diversa. Vance Weston, in verità, non faceva differenza tra stabilità e stagnazione, nella religione come negli affari. Tutti coloro che, a quanto aveva sentito, non si erano mossi al momento giusto, non importa in quale direzione, erano “fuori dai giochi”. […] Eppure, nonostante ciò, nessuno era riuscito, durante la vita di Vance Weston, a sviluppare una nuova religione, e tutti stavano ancora cercando di prendere all’amo le nuove generazioni con la vecchia esca.”

 

Vance è un giovane studente universitario di Euphoria, nei dintorni di Chigago, proveniente da una ricca famiglia espressione della nuova middle class americana diffusa tra la seconda metà dell’800 e i ruggenti anni venti del’900; una borghesia capitalista ed imprenditoriale che vive del culto del self made man, dell’afferrare e sfruttare l’attimo, del cambiamento e rinnovamento continui, sempre sulla cresta dell’onda, in un’ottica di continuo miglioramento ed innalzamento sociale.

 

Sovrani nel campo della compravendita e speculazione immobiliari, non concepiscono alcuna occupazione che non sia fonte di abbondante guadagno, accumulo di ricchezza, investimenti massicci. Trovarsi al posto giusto al momento giusto, fare dei beni materiali il proprio lustro e la propria affermazione sociale e individuale, l’unico strumento e scopo per vivere.

 

Vance è avulso da questo sistema; coltiva aspirazioni letterarie, anche se inizialmente in modo timido ed incerto, certamente condizionato dalla forma mentis di famiglia, da un padre che non considera alcun’ altra occupazione che non sia l’agente ed imprenditore immobiliare, eredità che Vance sente come un peso e un obbligo che non desidera onorare.

 

Il suo spirito profondo e sensibile, durante la convalescenza a Paul’s Landing, lungo il fiume Hudson e nei pressi di New York, coglierà l’illuminazione artistica nella vecchia casa dei Salici, in particolar modo nella biblioteca della residenza della defunta signora Lorburn, in cui incontrerà Coleridge, e sarò pervaso misticamente dall’amore per la poesia, come un’illuminazione che schiarisce e rafforza le sue ancora flebili intenzioni.

 

Si sentirà proiettato finalmente nel mondo che desidera, affascinato dalla dimensione storica del passato che non ha mai potuto conoscere e contemplare in seno alla sua famiglia contraddistinta da una mentalità meramente commerciale e legata sempre e solo al presente da manipolare con lo sguardo unicamente proteso al futuro.

 

Avvertirà interiormente la spinta verso la strada che vuole intraprendere, anche grazie all’aiuto della giovane Halo, discendente della signora Lorburn, vivace, intraprendente, cultrice delle discipline letterarie e soprattutto abile scopritrice di talenti ed attitudini, unica anime affine al giovane Vance in un contesto in cui egli non riceve stimoli, né sente di esser compreso, incoraggiato o sostenuto.

 

“[…] Guardandosi intorno, Halo capì per la prima volta a qual punto, in quello che sembrava il grottesco prodotto di una moda abbandonata, il genio impaziente di Vance avesse colto la poesia del passato. Per lui il luogo aveva simboleggiato la continuità, quel grande elemento nutritivo di cui nessuno gli aveva mai parlato, di cui né l’Arte né la Natura avevano saputo parlargli, poiché nulla nella sua formazione lo aveva preparato a quell’insegnamento. Eppure, per quanto fosse un cucciolo cieco, un embrione lasciato a sé stesso, si era tuffato all’istante nelle profondità sottostanti di cui i Salici gli avevano offerto uno scorcio.”

 

Obiettivo di Vance è accostarsi al mondo del giornalismo come trampolino di lancio per la carriera di scrittore, e New York è certamente la città in cui portare a compimento i suoi progetti, con le sue testate giornalistiche, i suoi salotti letterari, le occasioni di dibattito e confronto, e quindi fertile terreno di formazione artistica, intellettuale, umana. Dopo una prima esperienza non positiva nella città di New York, anche a causa della scarsità dei mezzi economici, delle condizioni di indigenza in cui versa e della mancanza di conoscenze influenti nel campo del giornalismo e nel vasto universo culturale della metropoli, farà mestamente ritorno nella nativa Euphoria.

 

Trascorsi tre anni, sarà proprio Halo a trovare fortuitamente in un vecchio numero della rivista “L’Ora” (un tempo guidata dal suo amico George che aveva rifiutato altri vari racconti scritti da Vance, e ora diretta dal marito Lewis Torrant che pare sia più interessato a investire le sue ingenti risorse e fare commercio che a diffondere cultura valorizzando occasioni di crescita e formazione), il suo unico racconto pubblicato, “La mia giornata”, a favorire il suo ritorno a New York, e l’ascesa e la fioritura della sua carriera, costellata da un’altalena di entusiasmi e momenti di sconforto, insicurezze e slanci artistici, passione e stanchezza, sentimenti di condivisione ed accettazione e solitudine ed incomprensione.

 

Vance, più sicuro di sé e un poco più sfrontato, sarà catapultato nell' ambiente culturale sfavillante della città agognata, constatando con stupore anche l’esistenza della logica di mercato che regge l’industria editoriale e giornalistica, operando istintivamente un collegamento tra la mentalità imprenditoriale e commerciale da sempre respirata in famiglia ed estranea alla sua dimensione spirituale.

 

“[…] «Quindi adesso tutto ciò che le resta da fare è sfornare capolavori» […] Vance capì e trasalì. Era proprio il genere di discorsi affaristici da cui istintivamente si ritraeva. Che negli affari ci dovessero essere “accordi”, trattative, compromessi era una cosa scontata per lui. Quelli erano gli affari, per come li intendeva lui; l’esistenza di suo padre era un labirinto di simili meccanismi sotterranei. Vance però non si era mai interessato agli affari, né aveva mai visto applicare le loro regole ai criteri di lealtà che dovrebbero regolare le vite private, e che aveva sempre creduto prevalenti nella repubblica delle lettere. Ai suoi occhi, l’opera di un artista faceva essenzialmente parte della sua vita privata, era qualcosa di più vicino all’osso del midollo stesso. Tutto ciò che poteva intaccare la santità, l’incorruttibilità dell’arte creatrice era troppo spregevole per essere considerato seriamente.”

 

Pubblicato nel 1929, ispirato alla formazione dello scrittore statunitense Thomas Wolfe agli albori della sua attività, ritroviamo uno degli ultimi lavori della nostra Edith Wharton che ci offre un’ ampia riflessione sul significato dell’elaborazione, costruzione e realizzazione dell’atto creativo in scrittura, della profondità e dell’illuminazione sottese, della sensazione di rapimento e trasporto in mondi paralleli, così come nei meandri della propria anima, e sottolinea l’importanza del passato, la necessità del suo studio, della sua ricostruzione, della sua incidenza sul presente, dell’appartenenza e del suo riconoscimento nella contemporaneità come guida, faro imprescindibile nella fase creativa, cosi come nella lettura, e l’incessante impegno di guardare dentro e intorno a sé traendo linfa per il modellamento delle proprie creature, delle proprie storie.

 

Un mosaico di riflessioni che si impone, dunque, per la sua assoluta attualità e che certamente riflette anche la precedente produzione saggistica della scrittrice, con “Come scrivere un romanzo” o “La scrittura del romanzo” (1924-25) e “Il vizio della lettura” (1903). E naturalmente la Nostra riesce a regalarci la sua raffinata capacità descrittiva dei personaggi e dei contesti socio-culturali con cui interagiscono, la pungente, schietta, talvolta ironica, disamina degli stati d’animo, delle passioni, dei conflitti interiori e delle ragioni delle scelte che dirigono i destini umani e la critica di una classe borghese capitalista, ammalata di denaro, arrampicamento sociale, materialismo. “[…] Immagino che lei sia combattuto tra le richieste del suo editore, che vuole un altro romanzo come Invece, e i suoi impulsi, che la spingerebbero a fare qualcosa di totalmente diverso: qualcosa che si situi oltre, al di fuori, lontano. E se si aggiungono tutti quei critici (o pretesi tali) che demoliscono i propri criteri una volta al giorno e ne edificano altri per soddisfare le loro ottuse necessità… buon Dio, sì, soltanto una solida vocazione può farsi strada attraverso quella folla urlante […] Vance ascoltò con attenzione. «Non sono frastornato… non esattamente. Ho detto che non riesco a vedere intorno e fuori di me. Ma da qualche parte dentro di me c’è una luce fissa…».

 

[…] Bene, ora però deve impadronirsi della vita che le sta intorno. Ricordi Goethe: “Comunque la rigiri, è interessante” *. È vero… ma solo nella misura in cui lei è interessante. Ecco l’inghippo. L’artista deve nutrire la sua prole dalla propria sostanza. Arricchisca la sua sostanza, giorno e notte… di continuo.”

 

*Non posso esimermi dal riportare, per la loro bellezza e verità, le parole dello scrittore, poeta e drammaturgo Johann Wolfgang von Goethe a cui la scrittrice fa riferimento. Dalle note della presente edizione (Eliot, maggio 2024):

Citazione dal Faust di Goethe, Prologo in teatro, vv. 167-169: «Prendete a piene mani dalla vita! /
Tutti la vivono, non molti la conoscono, / ma comunque la rigiri, è interessante».

 

 

 

 

 

Wharton Edith scrittrice e poetessa statunitense (New York 1862 – Saint-Brice-sous-Forêt, Val d’Oise, 1937).
Proveniente da una benestante famiglia di New York, si trasferisce in Europa agli inizi del’900. Il suo primo romanzo significativo è “La casa della gioia” (1905), seguito da altre opere tra cui il fortunato “Ethan Frome” e il celebre “L’età dell’innocenza” (1920) con cui si aggiudica il Premio Pulitzer (prima donna a ricevere il prestigioso riconoscimento), la cui trasposizione cinematografica del 1993, per la regia di Martin Scorsese, ottiene ben 5 nomination all’Oscar. Le sue ricorrenti tematiche traggono spunto dell’ambiente alto-borghese in cui è cresciuta ed è stata educata: le convenzioni e i pregiudizi sociali ed i conflitti interiori ed interpersonali che ne conseguono, i valori apparenti e superficiali della classe aristocratica e della nuova classe borghese in ascesa, la spinta a voler cambiare un destino che pare ineluttabile, con acuta e sopraffina analisi dell’animo dei suoi personaggi e della società circostante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Maria De Sipio nasce nel 1980 a Caserta e attualmente, dopo diverse peregrinazioni per motivi lavorativi, vive nella città dove è cresciuta, Capua. Sin da bambina ama i libri come luogo di incontro con sé stessa e il mondo circostante: librerie e biblioteche son centri di diffusione e promozione della cultura ed al contempo centri di condivisione e aggregazione sociale. Lavora nella Biblioteca Comunale dell’Istituzione Cultura di Savignano sul Rubicone (FC), per poi dedicarsi al settore della formazione ed educazione degli adulti, formazione e tutoraggio e learning, e scuola dell’infanzia e primaria tra Marche e Campania. Dal 2016 è co-amministratrice del gruppo “Leggo i classici di letteratura di Walter Ruffini” (storico fondatore venuto a mancare pochi anni fa): dagli albori al ‘900, classici nazionali e internazionali che ancora sanno parlare alla società contemporanea, come costante intreccio tra passato e presente, in un costruttivo continuum con i nostri giorni. Per Associazione Architempo e Circolo dei lettori Cose d’interni Capua è responsabile del progetto socio-umanistico della Sala Lettura ubicata nel Dipartimento di Salute Mentale dell’Asl di Caserta, sede di Capua.